La malattia renale cronica (chronic kidney disease, CKD) si riscontra frequentemente nella popolazione generale ed è caratterizzata da un incremento della morbidità e della mortalità cardio-vascolare. I pazienti affetti da CKD, in particolare nella sua fase terminale (end-stage kidney disease, ESKD), presentano un aumentato tasso di ospedalizzazione per cause infettive, incluse infezioni virali (Dalrymple LA, 2008). Si stima che circa il 15% degli adulti statunitensi (37 milioni di persone) sia affetto da CKD https://www.cdc.gov/kidneydisease/publications-resource /2019-national-facts.html.
Durante i primi 2 mesi dell’attuale epidemia da nuovo coronavirus SARS-Cov2 (COVID-19) in Cina, la CKD è stata segnalata nel 4,3% dei pazienti con grave presentazione. Inoltre, il danno renale acuto (acute kidney injury, AKI) rappresenta una complicanza frequente nei pazienti ricoverati in terapia intensiva, nei quali è stato descritto come un fattore predittivo di mortalità (al., 2020). I pazienti con insufficienza renale sono un gruppo altamente suscettibile di infezioni virali e quindi da inserire nei gruppi a maggiore rischio insieme agli anziani e ai pazienti con altre comorbilità, come diabete mellito, ipertensione e malattie cardiovascolari.
L’infezione da SARS-CoV2 presenta particolari sfide soprattutto per i pazienti in dialisi, come recentemente riportato da Naicker e colleghi nell’ultimo editoriale in Kidney International. In particolare, gli autori hanno segnalato che “i pazienti con malattia renale cronica sono particolarmente vulnerabili alle infezioni e possono presentare maggiori variazioni nei sintomi clinici e nell’infettività. Soprattutto nei centri in cui si effettua emodialisi aumenta significativamente il rischio di trasmissione di infezione, sia tra i pazienti che per il personale medico e gli operatori sanitari”. Nello stesso lavoro, gli autori hanno descritto un elevato tasso di mortalità tra i pazienti in emodialisi (7 decessi su 37 pazienti in emodialisi e 4 membri dello staff che hanno sviluppato un’infezione da SARS-CoV2 tra il 14 gennaio e il 17 febbraio 2020, presso un centro di dialisi a Wuhan, in Cina).
Inoltre nei pazienti affetti da CKD e/o ESKD l’utilizzo di farmaci antivirali, attualmente in fase di sperimentazione per il trattamento dell’infezione (ad esempio, Lopinavir/Ritonavir, analoghi nucleosidici, inibitori della neuraminidasi, Remdesivir, inibitori di sintesi di RNA inibitori, IFN-alfa), presenta problematiche specifiche, sia in relazione al potenziale maggior rischio di nefrotossicità, sia per le interazioni con altri farmaci abitualmente impiegati nel trattamento di questi pazienti.
Inoltre meritano delle considerazioni a parte i soggetti sottoposti a trapianto renale, che rappresentano una categoria specifica di pazienti con CKD. I primi report relativi a questa popolazione mostrano un’aumentata incidenza di AKI in corso di infezione da SARS-CoV2, un maggior rischio di progressione verso CKD e un incremento della mortalità (Alberici F, 2020). In questi pazienti, che spesso sviluppano una polmonite estesa da COVID-19, che può richiedere intubazione, la strategia terapeutica potrebbe prevedere la modulazione della terapia immunosoppressiva, per la quale attualmente tuttavia non esistono protocolli dedicati. Tuttavia, poiché la tempesta di citochine innescata dal coronavirus sembra essere particolarmente responsabile della morbilità in corso di infezione, la riduzione della terapia antirigetto potrebbe essere associata all’esacerbazione della risposta infiammatoria all’infezione virale. A tale proposito, sono state proposte terapie targeting (come ad esempio Tocilizumab) per controllare la tempesta citochinica indotta dall’infezione e la sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) che ne consegue, e numerose sono le sperimentazioni attualmente in corso (ad esempio, ChiCTR2000029765, o NCT04273321), la cui estensione ai pazienti portatori di trapianto renale è da valutare in modo specifico.
Attraverso queste informazioni non siamo senz’altro in grado di promuovere alcuna terapia specifica in quanto sono necessarie ulteriori validazioni di studi clinici, in particolare nei pazienti con CKD.
I dati relativi all’analisi istologica del tessuto renale eseguita post-mortem in pazienti deceduti per COVID-19 supportano l’evidenza di un danno primitivamente tubulo-interstiziale, in assenza di coinvolgimento glomerulare. Tuttavia, la biopsia renale di due pazienti afro-americani deceduti per COVID-19 ha dimostrato la presenza di glomerulosclerosi focale segmentaria (FSGS) variante collapsing, una forma aggressiva di danno glomerulare precedentemente descritta in associazione con malattie autoimmuni, terapia con interferone e infezioni virali tra cui quella da HIV, citomegalovirus e parvovirus. Indipendentemente dalla malattia associata, circa il 70% degli afro-americani affetti da FSGS collapsing è omozigote o eterozigote composto per gli alleli di rischio nel gene APOL1, denominati G1 e G2. L’insieme di queste osservazioni solleva la questione se la presenza di un background genetico specifico (es. varianti nel gene APOL1) possa conferire un maggior rischio di sviluppare complicanze renali in corso di infezione da SARS-CoV2. In effetti, è noto da tempo che rispetto ad altre etnie, gli individui afro-americani presentano un rischio maggiore di sviluppare malattie renali, in gran parte attribuibile alla presenza dei 2 alleli di rischio G1 e G2 nel gene APOL1, che sono molto comuni in questa popolazione.
In considerazione del fatto che le informazioni relative al danno renale in corso di infezione COVID-19 derivano da osservazioni condotte principalmente nei pazienti cinesi e potrebbero pertanto non essere del tutto generalizzabili ad altre popolazioni, come per esempio quella afro-americana, non è possibile escludere che questo possa rappresentare il primo spunto per l’approfondimento del ruolo di alcune varianti genetiche nella predisposizione al danno d’organo.
A cura di: Sabrina Giglio